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Maiuscole e minuscole

Nel post precedente, su santità e frigoriferi, abbiamo detto che il senso della vita è qui e adesso, e lo abbiamo fatto discendere come conseguenza logica del mistero dell’incarnazione.

Quando scopriamo la nostra vocazione, qualunque essa sia, scopriamo un percorso concreto, centrato sulla realtà fisica, attraverso cui è il Signore stesso che entra nella nostra vita.

Tra i tanti quesiti che la nostra vocazione ci pone, uno spicca fra tutti: “Come vivo, in concreto, la mia vocazione?”. Quando collaboravo con l’Ufficio Diocesano per la Pastorale delle Vocazioni della mia diocesi, questa era la risposta che cercavo di dare a me, per primo, e agli altri come conseguenza. Perché il bello della Fede è che quando si cerca di spiegarla agli altri, quasi sempre la stiamo spiegando di nuovo anche a noi stessi, e stiamo rinforzando il nostro spirito perché prenda le redini della nostra debole carne.

Ed è proprio di carne che dobbiamo parlare se vogliamo capire come si vive in concreto la nostra chiamata.

Comprendere il Vangelo non significa apprendere delle idee, non significa acquisire dei concetti astratti, non significa conoscere una storia, vera o romanzata che sia, significa incontrare personalmente, carnalmente, la persona di Cristo.

Se parliamo di Fede, Speranza e Carità come fondamenta dell’azione della nostra vocazione, queste passano tutte per la carne, cioè per la realtà concreta del prossimo. Intanto sottolineiamo che qualunque vocazione (al sacerdozio, alla vita religiosa, al matrimonio, al laicato, …) è essenzialmente una vocazione alla santità, a quel farsi santi con ciò che c’è nel frigorifero, nel metro di trincea che ci è stato affidato. E quindi, da adesso in poi, parleremo solo di vocazione alla santità, intendendo qualunque tipo di vocazione ci proponga Dio nella nostra vita.

L’incontro carnale con la persona di Cristo avviene in vari modi ma quello più difficile (e più frequente) è quello dell’incontro con l’altro. L’altro può essere la moglie, il marito, un figlio, un parrocchiano, un confratello, un collega di lavoro, e potrei andare avanti ancora. L’altro è il mio prossimo, cioè quello che in quel momento si trova a me più vicino, alla portata della mia azione. In pratica, l’altro è quello che incontro nel metro di trincea affidatomi e che a volte è amico ma a volte è nemico. E questo altro deve essere per me Cristo in persona (“Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”, Mt 25,31) ed è attraverso l’altro che incontro Cristo, che incontro la carne di Cristo. E se Cristo ci tocca, come con l’emoroissa o il cieco, ci salva, vocazionalmente parlando ci salva la vita.

Quindi la nostra vocazione deve essere concreta. Deve essere centrata sulla relazione con l’altro (con la minuscola) perché siamo consapevoli che in lui incontriamo l’Altro (con la maiuscola).

Ma questa relazione con l’altro non è facile. Perché l’altro, a volte, è finito nel mio metro di trincea ma non è un mio amico. E allora cosa ci dice Cristo? Vediamo chi indovina … Ci dice di amare questo nemico. Pensate, amare. Non rispettare. Non stimare. Non considerare. Ci chiede di amarlo. Ci chiede (addirittura!) di pregare per lui.

E anche se non è nostro nemico, ma è solo un conoscente petulante, un parente fastidioso, un amico ingombrante, ci chiede di amarlo. E pregare per lui.

E il male interviene in questa relazione. Interviene in due modi (come le “Lettere di Berlicche” di Lewis spiegano molto bene): alienandoci e distogliendo il nostro sguardo.

Se il male riesce a farci vivere altrove, facendoci uscire dalla trincea ormai stretta per la presenza dell’altro, in una fuga dalla realtà, ci fa alienare, ci fa allontanare dallo spazio della relazione e ci porta fuori del raggio di azione che ci rende prossimi al nostro prossimo.

Se il male, invece che allontanarci, ci fa deviare lo sguardo, smettendo di considerare quella persona che abbiamo di fronte carne di Cristo, allora ha trovato un altro modo per distruggere questa relazione concreta. Quella persona diverrà, infatti, insopportabile nella sua umanità e nella sua miseria.

Quando diciamo, ad esempio, che la famiglia è sotto attacco, intendiamo che è sotto attacco la relazione concreta tra le persone che la formano. E questo vale per tutte le vocazioni. In ognuna di esse il male si insinua rendendoci schiavi del nostro individualismo.

La vocazione ci libera, ci salva, proprio perché, costruendo relazioni, ci fa uscire dalla schiavitù del nostro individualismo, ci fa uscire dall’essere ripiegati su noi stessi. E il male cosa fa? Per colpire la nostra vocazione cerca proprio di ripiegarci su noi stessi. E quando ci ripieghiamo, per lui diventa facile spingerci a guardarci dentro e a vedere i nostri sforzi come vani, come inefficaci, inutili. Cerca di sommergerci con la tristezza del fallimento, perché tutto sembra impossibile, tutto sembra vano.

Quante volte ci siamo trovati in situazioni come queste? Situazioni in cui sembra tutto sbagliato e il disastro inevitabile? Don Luigi Maria Epicoco, nel suo libro “Farsi santi con ciò che c’è”, a cui ci stiamo ispirando per questi nostri post, ci porta un bellissimo esempio, che è quello del Mar Rosso che sbarra la strada agli Ebrei in fuga dal faraone.

Questo Mar Rosso che ci sbarra la strada è la dimostrazione del nostro fallimento come Ebrei in fuga, perché insormontabile. Questo Mar Rosso, che incontriamo nella nostra vita quando ci troviamo di fronte all’altro, magari per parecchio tempo, come accade ad un parroco con i suoi parrocchiani o a due coniugi, consiste nel vedere solo le difficoltà della nostra vocazione, ossia della nostra relazione con l’altro (che spesso derivano da un problema con l’Altro). E ci porta alla disperazione. Il faraone è il nostro io, il nostro egoismo che ci segue a ruota, il nostro egocentrismo che avrà sempre la meglio se non accade qualcosa.

Ma ecco, all’improvviso, avviene il prodigio! Dio apre una strada dove non ce ne poteva essere una, e il Mar Rosso si divide in due. Don Luigi spiega che la vocazione è proprio questo: aprire una strada dove non c’è una strada. Questa è la vocazione alla santità. Scoprire una vocazione è scoprire una possibilità nell’impossibilità del nostro egoismo.

Ma la cosa più bella della vocazione è che questa strada, questo passaggio attraverso il Mar Rosso, ha un nome proprio, ha il nome della persona che incontriamo. Della persona che amiamo. Amico o nemico che sia. Amico o nemico, vorrei sottolineare.

E allora la via della santità passa per incontrare l’altro, stabilire con lui una relazione d’amore, possibile sempre e per sempre solo se lasciamo entrare Dio in questo rapporto. E per farlo entrare un “gran mezzo”, come diceva sant’Alfonso Maria de’ Liguori, è la preghiera.

E quindi la vocazione alla santità è un continuo ora et labora, ossia un continuo pregare l’Altro (con la maiuscola) perché si riesca a vivere concretamente la Fede e la Speranza, attraverso l’Amore, cioè la Carità, verso l’altro (con la minuscola).

Con questo non si vogliono certo sminuire le vocazioni in cui predomina una delle due dimensioni, orizzontale o verticale. Ma anche tra le suore di clausura esiste una relazione orizzontale con le altre consorelle e le madri superiori. Così anche gli eremiti, che contemplano Dio tutto il giorno, sono anche in contatto con altri eremiti o con fedeli che vanno alla loro ricerca. E quindi praticamente in quasi tutte le forme di santità abbiamo questa contemporanea presenza di Altro e altro.

E qual è il primo luogo, che tutti abbiamo sperimentato, in cui vivere una vocazione? È la famiglia, dove tutti abbiamo vissuto il ruolo di figlio, in un contesto di dinamiche relazionali. E la famiglia è la porta per la vocazione ad essere un cristiano adulto nella fede. Anche quando si oppone a certe vocazioni o ne vorrebbe imporre altre.

Tutti siamo stati figli, e la famiglia è la prima esperienza di vocazione a cui ci vediamo chiamati proprio come tali. Ma la famiglia è anche una comunità. Ma di questo parleremo un’altra volta.

Quindi, in conclusione, non solo farci santi con ciò che c’è ma anche farsi santi con chiunque sia a portata di mano. Che poi sarebbe il nostro prossimo. Buon Samaritano docet.

Luca Lezzerini

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Credits: Foto di Alexander Andrews su Unsplash

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